Il successo dell'economia agraria dei Cistercensi e la sua superiorità nei confronti delle grandi proprietà terriere, realtà ormai sorpassata e in continuo degrado, furono dovuti soprattutto alla loro straordinaria capacità di organizzazione e di pianificazione dello sfruttamento delle innumerevoli proprietà dell'Ordine. I coloni cistercensi, infatti, lavoravano per se stessi, in quanto la loro sopravvivenza dipendeva proprio dal loro lavoro; l'abate esercitava poi il suo costante controllo sullo sfruttamento di tutti i possedimenti terrieri. Al fine di poter controllare e curare ogni possedimento nel migliore dei modi, lo strumento di maggior successo fu l'organizzazione di grange, ovvero di stanziamenti monastici agrari, i quali univano ai vantaggi della pianificazione centrale, l'autonomia locale.
Nonostante vi fossero già stati dei precedenti, le grange possono essere considerate caratteristiche della prima agricoltura cistercense. Quando le proprietà dei monaci diventarono eccessivamente estese, esse vennero suddivise in singoli appezzamenti di circa quattrocento o cinquecento acri, poi successivamente recintati. All'interno di essi si costruirono degli edifici a scopo unicamente pratico, in quanto utilizzati come abitazione da parte di un gruppo di fratelli conversi, oltre che per raccogliere gli animali della fattoria e per immagazzinare sia gli attrezzi indispensabili che il prodotto delle messi.
Secondo le norme più antiche, le grange non dovevano distare dall'abbazia più di una giornata di cammino, per poter essere costantemente controllate e per consentire ai fratelli conversi di ritornare ogni domenica all'abbazia per gli uffici religiosi. Durante il XII secolo, la gestione normale delle grange era affidata esclusivamente ai fratelli conversi, anche se al tempo dell'aratura o della mietitura si ricorreva di frequente a manodopera esterna. Con il passare del tempo, tuttavia, il moltiplicarsi delle grange rese sempre più indispensabile l'aiuto degli abitanti dei villaggi vicini.
I primi edifici costruiti per le grange cistercensi non comprendevano una cappella, poiché era richiesto che i fratelli ritornassero all'abbazia per gli uffici religiosi. Con il progressivo aumento delle distanze, tuttavia, questo divenne irrealizzabile, e dunque si cominciarono a costruire cappelle; l'abbazia continuò comunque a esercitare il suo controllo anche in questo ambito, in quanto la celebrazione quotidiana dell'Eucarestia poteva essere organizzata solo grazie al permesso del vescovo della diocesi, il quale, prima di concederlo, si assicurava che la cappella non sarebbe entrata in competizione con la chiesa parrocchiale più vicina.
L'insieme degli edifici della grangia veniva spesso circondato da mura o da fossati, per impedire furti o scorrerie. Nei momenti di maggiore pericolo i servi dell'abbazia venivano armati, in modo tale da assicurarne la difesa.
L'Abbazia di Santa Maria di Lucedio venne fondata da alcuni monaci cistercensi provenienti dal monastero di La Ferté a Chalonsur-Saône, in Borgogna, su terreni donati loro dal marchese Ranieri I del Monferrato, appartenente alla dinastia degli Aleramici. Si trattava di terreni da bonificare, in quanto paludosi e coperti da vaste e incolte boscaglie, denominate Locez, da cui è derivato il nome dell'abbazia, rimasto invariato nel corso dei secoli. Queste prime donazioni degli Aleramici all'abbazia rivestirono un'importanza fondamentale, in quanto su tali atti cominciò a fondarsi l'importanza politica ed economica del monastero, che crebbe poi notevolmente nel corso dei secoli XII, XIII e XIV, in corrispondenza con una vastissima espansione territoriale.
Il patrimonio terriero dell'abbazia si estendeva ben oltre le terre prossime al monastero (con le grange di Montarolo, Darola, Castelmerlino, Leri, Montarucco, Ramezzana, Cornale e Gaiano), comprendendo anche appezzamenti dislocati in un'ampia area del Monferrato e del Canavese. Inoltre, nel 1171 nacque l'abbazia di Rivalta Scrivia, come filiazione di quella di Lucedio.
Nel 1457, con breve di papa Callisto III, l'abbazia divenne Commenda, passando sotto il patronato dei Paleologi, marchesi del Monferrato, che acquisirono così il diritto di nominare l'abate e di riscuotere le rendite. In seguito, il feudo passò ai Gonzaga, subentrati a Casale nella reggenza del Monferrato.
Nel 1707, i Savoia riuscirono a impossessarsi dell'abbazia. Nel 1784 essa venne secolarizzata e le sue grange divennero parte della Commenda Magistrale dell'Ordine dei Santi Maurizio e Lazzaro. I monaci cistercensi, ridotti ormai a una decina, furono trasferiti a Castelnuovo Scrivia. Nel 1792, l'Ordine di San Maurizio ne conferì la commenda al duca Vittorio Emanuele I di Savoia, tuttavia dopo pochi anni il monastero cadde nei decreti napoleonici di soppressione.
Napoleone cedette poi la proprietà di Lucedio a Camillo Borghese, per risarcirlo delle collezioni d'arte che gli erano state requisite a Roma. Dopo la caduta di Napoleone, ebbe inizio un lungo dibattito tra Camillo Borghese e i Savoia sul possesso di Lucedio.
Si decise dunque di dividere le proprietà in lotti e di cederle a diversi personaggi, tra cui il padre di Camillo Benso, conte di Cavour; il lotto comprendente l'abbazia di Lucedio passò sotto il controllo del Marchese Giovanni Gozzani di San Giorgio che, nel 1861, lo cedette a sua volta al duca genovese Raffaele de Ferrari di Galliera, al quale i Savoia conferirono il diritto di onorarsi con il titolo di Principe. Fu così che nacque il Principato di Lucedio, denominazione che ancora oggi possiamo osservare sul portale d'ingresso della tenuta, attualmente appartenente alla famiglia Cavalli d'Olivola.
L'abbazia di Lucedio si presenta oggi come una grande e moderna azienda agricola. Dell'antico monastero medievale, eretto nel XII secolo e poi ampliato nel corso dei due secoli successivi, oltre alla cinta muraria che lo racchiudeva si sono conservate notevoli strutture architettoniche, tra le quali ricordiamo il campanile a pianta ottagonale, poggiante su una preesistente base quadrata, in stile gotico lombardo; il chiostro; l'aula capitolare con colonne in pietra e capitelli di foggia altomedievale; infine, il refettorio con slanciate volte a vela che poggiano su basse colonne.
L'antica chiesa abbaziale, divenuta pericolante, venne abbattuta per consentire al monaco-architetto Valente de Giovanni di realizzare un nuovo edificio, ovvero una nuova chiesa costruita, tra il 1767 e il 1770, seguendo eleganti forme barocche.
All'interno della cinta muraria troviamo una seconda chiesa: la chiesa del popolo, costruita nel 1741 per le funzioni sacre destinate alle famiglie contadine e alla gente comune residente in Lucedio. Oggi la chiesa – disegnata da Giovanni Tommaso Prunotto, collaboratore di Juvarra – è stata ridotta a deposito agricolo; tuttavia, possiamo ancora ammirarne le linee tardo barocche.